lunedì 23 dicembre 2013

Terra!





Mi chiamo Juan Cortez e non sono nulla. Nel vascello dove sono imbarcato, il Marina, c'erano esperti navigatori, marinai, commercianti e un capitano di tutto rispetto, io non sono altro che un semplice mozzo, senza nessuna particolare abilità. Tuttavia, venti giorni fa, tutto è cambiato. Ci trovavamo al largo della costa delle Antille e stavamo tornando in patria dopo aver trattato l'acquisto di una grande quantità di argento sudamericano, quando di notte una tempesta improvvisa ha travolto la nostra nave, facendoci perdere completamente la rotta e lasciando la nave devastata.  Il mattino dopo, usciti ormai dalla tempesta, i danni erano ingenti: la vela era completamente stracciata, il timone rotto e l'albero di mezzana abbattuto. In mezzo all'oceano non avevamo i materiali per riparare i danni, inoltre abbiamo anche perso diversi uomini, scagliati in mare dalle onde o schiacciati dall'albero caduto. Non avevamo modo di tornare a terra, avendo il timone rotto, e anche volendo non sapevamo dove ci trovavamo, il nostro navigatore esperto era stato travolto da una grossa onda ed era finito in mare, sfondando il parapetto del ponte. La situazione era letteralmente disperata, e, come se non bastasse, le poche persone valide rimaste avrebbero abbandonato la nave da lì a poco. Per primo se ne è andato il mio amico Pablo, il miglior marinaio che abbia mai conosciuto, capace di affrontare le peggiori tempeste e gran conoscitore dei mari, nonché delle donne. Quello stesso pomeriggio ha calato una piccola scialuppa in silenzio, preso un po' di viveri e ha iniziato a remare in una direzione apparentemente a caso, fino a sparire completamente. Il capitano, in genere, non gli avrebbe mai permesso di andarsene, eppure non ha fatto né detto nulla, dopo la tempesta si era chiuso nella sua cabina e non ne era più uscito.  Ero rimasto a guardarlo a lungo, anche quando ormai non potevo più vederlo, fumando malinconico del tabacco da quattro soldi. Il mio istinto mi diceva di seguirlo, sentivo che il suo istinto di sopravvivenza e la sua abilità come marinaio gli avrebbe permesso di salvarsi, nonostante le difficoltà. Tuttavia non l'ho fatto, qualunque strada aveva deciso di prendere era la sua, e la sua soltanto. Poi era venuto il turno del cuoco: con la morte nel cuore ha preso tutte le sue cose, i mestoli, le pentole, le spezie, ci ha guardati per un lungo istante come se volesse dire qualcosa. Aveva aperto la bocca, tuttavia non ne era uscito altro che un greve sospiro, così, rassegnato,  aveva preso la penultima scialuppa e come Pablo se ne era andato. L'ultima scialuppa l'aveva presa il commerciante, prendendo tutto l'argento che la scialuppa poteva sopportare, e aveva iniziato faticosamente a remare, non era certo un uomo di fatica. Non aveva alcuna esperienza di navigazione, e credo che andandosene si sia diretto di sua spontanea volontà verso il gelido abbraccio della morte. Tutti noi ne eravamo consapevoli, eppure nessuno aveva provato a fermarlo, l'arroganza e l'antipatia di quell'uomo avrebbero reso vano ogni tentativo di fermarlo. Inoltre ci stava sulle scatole.  Dopo che se ne era andato, avevamo iniziato a guardarci tutti nervosamente, non c'erano più scialuppe con cui andarsene. La situazione, da quel momento, era degenerata. I marinai avevano iniziato a staccare pezzi del vascello per usarli come scialuppe di fortuna, c'era chi usava le assi del pavimento come una zattera, chi le porte, chi diversi barili legati insieme. C'era tanta disperazione, e paura, ma anche determinazione, il buon Pablo aveva dato inizio a quell'esodo disperato. Per ultimo se ne era andato il capitano: senza dire una parola era finalmente uscito dalla sua cabina, portando faticosamente con sé il suo grosso armadio, un armadio orribile e di pessimo gusto, ma galleggiante.  Nonostante la situazione critica eravamo rimasti tutti estasiati dalla dignità e austerità che riusciva a sfoggiare il Capitano abbandonando la sua nave: i suoi passi erano lenti, accompagnati dal suono rotondo delle suole dei suoi stivali che con cadenza marziale calpestavano le assi in legno del ponte, e il suo volto aveva un'espressione severa, di pietra. Probabilmente non era altro che una messinscena, nel suo intimo era spaventato e disperato come tutti noi, ma immagino che, consapevole di riuscire a sopravvivere e tornare in madre patria, non voleva che si sarebbe diffusa la notizia di una sua fuga indecorosa. Certo, sempre che noi vi avremmo mai fatto ritorno. Con l'aiuto dei pochi mozzi rimasti si era fatto calare in mare a bordo della sua scialuppa di fortuna, in compagnia del suo fedele secondo, il cui scopo era naturalmente remare e governare la scialuppa-armadio. Si era portato, inoltre, una grande quantità di viveri e la sua argenteria privata, scelta che non ho mai capito, qualsiasi cosa non sia utile o commestibile non è che un peso inutile in mezzo al mare. Lentamente, a causa del peso, si era infine allontanato anche lui, il capitano Francisco Armando Martinez. Un buon capitano, forse non il più competente, ma aveva la rara, se non unica, capacità di trattare con dignità e rispetto qualunque persona sotto il suo comando, che si trattasse dell'ultimo dei mozzi o del suo secondo in comando. Credo che questo lo rendesse un grand'uomo, degno di onore. Dopo che era sparito all'orizzonte siamo rimasti a lungo in silenzio, come a prenderci il tempo per realizzare che non avevamo più un capitano, né un navigatore, né un cuoco, né un marinaio. Del commerciante potevamo farne a meno. Del nostro equipaggio di esperti marinai e navigatori non eravamo rimasti che noi, sei mozzi senza arte né parte. In quel momento, realizzato questo, qualcosa dentro di me stava nascendo. Non c'era più un equipaggio, né una gerarchia, né un ordine, non ero più un semplice mozzo. Ero un semplice essere umano, e in quanto tale potevo essere qualunque cosa. Potevo essere perfino capitano di quella nave distrutta e senza speranza. Mi ero liberato di un fardello che fino a quel momento non mi rendevo nemmeno conto di avere: ero un uomo libero. Libero e spacciato. Nasceva in me la voglia di combattere, di godermi la libertà scoperta e di essere qualunque cosa volessi. Non avendo nessuna nozione specifica su come riparare la nave, su come governarla e sull'orientamento, ho dovuto improvvisare. Per prima cosa serviva una vela: così, non potendo riparare quella che avevamo, completamente stracciata, ho pensato che anziché avere un'unica, grossa vela, potevo farne tante piccole. Con l'aiuto degli altri ho strappato piccoli drappelli dalla vela, non più grossi del busto di un uomo, e li abbiamo fissati nei posti più svariati. Per quanto riguarda il timone, invece, nessuno era in grado di ripararlo. Eppure Joshua, un giovane mozzo poco più che ventenne, ci aveva stupito: nessuno di noi era a conoscenza di questa sua particolarità, ma è sempre stato appassionato di ingegneria, ed essendo dotato di una mente brillante e sveglia gli basta osservare per capire il funzionamento di ogni cosa. Inoltre la sua mente creativa ha fatto sì che in segreto elaborasse congegni e invenzioni frutto solamente del suo intelletto. Fino a quel giorno aveva sempre taciuto al riguardo, limitandosi al suo ruolo di basso profilo, ma non era più un mozzo, e la sua abilità è stata provvidenziale. Utilizzando solo il materiale presente sulla nave, ossia corde, una scarsa quantità di legname e chiodi, era riuscito ad elaborare e costruire un nuovo sistema per manovrare la nave senza l'uso del timone, sfruttando un meccanismo simile ma molto più semplice ed efficace. Un meccanismo flessibile, capace di resistere agli urti e alle intemperie, ma al contempo solido e robusto. Finalmente eravamo pronti a ripartire. Ma per dove? La nostra più grande paura era prendere la rotta sbagliata e andare in una direzione senza nient'altro che acqua, e onde, e morte. Con i viveri limitati avevamo una possibilità su mille di riuscire a sopravvivere e giungere alla terraferma. Il cibo non era particolarmente un problema: Jacob, un vecchio mozzo ubriacone, rozzo e di maniere brusche, ma di buon cuore, è un ottimo pescatore, ed è riuscito sempre a rimediare qualcosa da mangiare. Avevamo anche una buona quantità di limoni, in modo da non ammalarci di scorbuto. Il problema, per quanto ne fossimo circondati, era l'acqua: nonostante il duro razionamento la quantità che potevamo permetterci era di mezza pinta d'acqua al giorno, e il caldo torrido faceva sì che non era assolutamente sufficiente. Dovevamo decidere in fretta. Quella volta era il turno di Cisco, a stupirci: tutti noi l'avevamo sempre schernito, ritenendolo un ignorante e uno stupido, ma ha l'animo del filosofo, e sempre il suo sguardo si volge alle stelle, in cerca di risposte. Nessuno le conosce meglio del vecchio Cisco, le conosce così bene che è in grado di usarle per orientarsi, ovunque si trovi. E' stato così che, stabilendo con buona precisione dove ci trovassimo e dove si trovasse la terra più vicina, abbiamo preso una rotta precisa, senza mai modificarla. Come uomini liberi ci stavamo realizzando, nessuno di noi era inutile, o superfluo, o semplicemente un paio di braccia forti da poter sfruttare e sostituire in qualunque momento. Ognuno era indispensabile alla sopravvivenza degli altri e, nonostante la tensione, non ci sono stati litigi né altro, eravamo tutti molto uniti. I successivi giorni di navigazione sono trascorsi tranquilli: Fidel si è scoperto un ottimo cuoco, e con i pochi mezzi a disposizione riusciva a fare del pescato di Jacob degli ottimi manicaretti, semplici ma molto energetici. Gonzalo, invece, si è dimostrato un buon, buonissimo carpentiere, e passava il tempo a rinforzare la nave, sfruttando tutto il legname superfluo che riusciva a trovare. Cisco ha continuato a mantenere la rotta, certo che presto avremmo raggiunto terra. Tutto è andato bene fino a due giorni fa: proprio quando sembrava eravamo finalmente vicini alla tanto agognata terra, verso mezzogiorno siamo incappati in una nuova tempesta, ancora più forte di quella che aveva distrutto il nostro equipaggio. Onde altissime sembravano voler capovolgere ad ogni costo la nave, impattando ogni volta con più forza il fianco della nave, e un vento furioso scuoteva le vele con un accanimento tale che credevamo di essere vittima dell'ira di una qualche divinità esotica. La tempesta durò tutto il giorno e tutta la notte, e ognuno di noi ha fatto il possibile per resistere: Cisco era al timone, e lottava con tutte le sue forze per mantenere la rotta. Io mi occupavo di ammainare più di metà delle vele, in modo che non si stracciassero, e gli altri gettavano fuori l'acqua imbarcata. Eravamo sfiniti, assetati e affamati, e la notte abbiamo smesso di lottare, abbandonandoci al nostro destino, avevamo fatto tutto ciò che era in nostro potere, dopotutto. Ci siamo ritirati sotto coperta e abbiamo pregato con tutte le nostre forze che la tempesta cessasse presto. Il mattino ci siamo svegliati al dolce, lieve rollio della nave, segnale che il mare era ormai calmo. Nessuno di noi aveva il coraggio di uscire in coperta e vedere i danni che la nave aveva subito. Eravamo ancora a galla però, ed eravamo ancora vivi, un buon segno. Sono stato il primo a decidere di uscire, e non riuscivo a credere ai miei occhi: la nave aveva tenuto. Le vele non si erano stracciate, il timone funzionava ancora bene e i rinforzi di Gonzalo hanno fatto sì che i danni fossero pochi o nulli. Allora abbiamo cantato e ballato euforici, a lungo, alla luce di un'alba di un giorno nuovo e ricco di speranza. Oggi, dopo venti giorni di navigazione, riesco a scorgere una linea inconfondibile all'orizzonte, e urlo ai miei compagni: "Terra! Terra!". 

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